Sono allo sportello di un ufficio comunale mentre  l’impiegata si muove tra casellari con l’aria tra annoiata e disgustata che  hanno spesso i dipendenti pubblici. La sala è affollata e fumosa, due  bidelli all’ingresso chiacchierano  rumorosamente. Entra una signora anziana vestita di nero, il fazzoletto attorno  ai capelli, la gonna lunga sino ai piedi. Ha l’aria imbarazzata, si capisce che  non si muove a proprio agio in città. Chiede delle informazioni in sardo. I  bidelli la guardano e fanno finta di non capire, rispondono in italiano,  apparentemente comprensivi ma anche un po’ autoritari. “Si spieghi meglio, cosa  desidera?”. Reiterate frasi in sardo, reiterati volti dubbiosi. E’ una  pantomima giocata ad uso dei cittadini in attesa, che servilmente sorridono di  commiserazione. Rabbia e umiliazione ed impotenza mi prendono. Non parlo il  sardo, sono a Cagliari da pochi mesi non posso aiutare. Perché nessuno lo fa e  lasciano che la donna venga umiliata? Ho tredici anni. La vita oggi mi offre  una lezione, non la dimenticherò facilmente.  
Molti anni dopo credo di aver  capito: il controllo della lingua come potere, il servilismo di chi guarda  subisce e non si ribella, la violenza gratuita di chi pensa di avere una autorità  da esercitare, la grande dignità di chi è svantaggiato non per propria colpa. 
Eppure l’estensione della legge  sul bilinguismo al sardo non mi convince.  
Non è in questione il diritto dei  sardi di esprimersi, diffondere ed usare la loro lingua. Mi preoccupa,  utilizzando in ogni suo aspetto la legge approvata, l’uso freddo e burocratico  che si potrebbe fare del sardo attraverso improbabili traduzioni dall’italiano  di decreti e norme varie: “Nel caso di parità di condizioni, anche per effetto  di quanto disposto dai commi …, tra i programmi o gli impegni degli enti di cui  all’articolo … o delle società ed aziende …” “Fermo restando quanto disposto  dal comma …, al concessionario uscente spetta un’indennità stabilita con le  modalità e i criteri di cui all’articolo …” ed avanti in pessimo italiano  burocratese e domani anche in sardo con ulteriore moltiplicazione dei costi e  della carta inutile. 
E mi spaventa la riduzione della  lingua ad altra materia di insegnamento nelle scuole, sottraendo spazio alla  matematica, storia, fisica, inglese, latino.  
Penso che il sardo sia la lingua  degli affetti, della comunicazione tra padre madre e figli, tra amici al bar,  delle parole attorno al camino, delle conversazioni al ristorante e nella  piazza, qualcosa da tenere caro come una cosa preziosa e da mostrare quando ci  incontriamo lontano da casa o nella intimità della famiglia. 
Non immiseriamo e confondiamo la  lingua della nostra terra con le lingue franche del lavoro: l’italiano,  l’inglese, il francese …  |