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Coppa America
Gli italiani sono accusati di non sapere lavorare in squadra, di essere troppo individualisti. Eppure nello sport il luogo comune è smentito. La Coppa America offre uno spunto per l’Unione Sarda: "Luna Rossa vince, l'Italia perde"
 
Riparte la sfida di Luna Rossa in Coppa America. Comunque vada l’equipaggio italiano ha già vinto. Cinque consorzi nordamericani, per non parlare dei giapponesi e degli europei, hanno dovuto arrendersi alla squadra italiana.
In finale conterà molto di più il fattore campo e l’abilità  velica dei neozelandesi, per i quali andar per mare è come per i brasiliani giocare a calcio.  Ed anche la consuetudine iniqua, ma accettata sin dalle prime regate attorno all’isola di Wight, che praticamente consente al detentore di fissare le regole del gioco a suo favore a gara già iniziata.
La Coppa America, al pari della formula 1, è diventata l’occasione per mettere a confronto, in una gara tirata allo spasimo, sofisticati programmi di modellazione al computer, elettronica, materiali innovativi, sottilissime vele in grado di sostenere la spinta di folate a trenta nodi.
Ma la tecnologia non vince da sola, l’uomo deve padroneggiarla con destrezza. Non il singolo ma la squadra,  l’organizzazione, il lavoro in team. Ma non basta la squadra, è necessaria la disciplina e la fatica, mai ingrata se conduce a buon fine. Neanche questo è però sufficiente per vincere, servono ancora virtù antiche dell’uomo: la volontà, lo spirito di sacrificio, la generosità.
Gli Stati Uniti esprimono al massimo questa commistione di elementi di successo.
Eppure, una squadra italiana ha dimostrato di poterli battere. Poco importa che la tecnologia sia di fattura prevalentemente americana. Globalizzazione e prezzi contenuti mettono tutto a disposizione di tutti.
Si capisce allora l’entusiasmo collettivo degli italiani per gli eccitanti successi di Luna Rossa contro gli Americani sul campo di regata dello sport meno popolare in Italia, assieme al golf.
Forse è una rivincita liberatoria, un sollievo dallo stato d’animo frustrato originato dalla coscienza del divario tra la nazione Italia  e gli altri paesi di cui siamo alleati e concorrenti assieme.
Su scala nazionale e nelle attività quotidiane non si vince. Il mezzogiorno è indietro come cinquanta, cento anni fa. La disoccupazione a due cifre è tra le più alte in Europa, la crescita del reddito è la più lenta. Per non parlare dei servizi pubblici disastrati. I sardi ne sanno qualcosa.
Perché dunque vinciamo un rally, un gran premio, una regata difficilissima destreggiandoci da campioni tra tecnologia e carattere mentre siamo sconfitti, o comunque indietro, come sistema nazionale? Perché non si può adottare in ogni altra cosa la stessa disciplina, la valorizzazione della competenza ed il premio al merito?
In politica una simile disciplina richiederebbe però un passo indietro del professionismo di partito e l’abbandono della demagogia di facile presa, per non parlare del clientelismo, in favore di una più larga assunzione di responsabilità pubblica delle donne ed uomini del fare. Gli stessi che diffondono nel mondo cultura, moda e beni di investimento, macchine, vino e formaggio. E che talvolta per divertimento o per calcolo imprenditoriale si cimentano nelle gare tecnologiche.
Purtroppo il particolarismo di chi sa fare e la delega di rappresentanza ad un ceto politico di estrazione burocratico-partitica, uniti ad inefficienza ed invadenza dell’amministrazione pubblica, costituiscono la causa principale del ritardo italiano.
Churchill diceva che le aziende di un Paese sono come un cavallo molto robusto che traina un pesante fardello. Nel traino c’è dentro tutto: rischio, competizione, conflitti sociali, ma soprattutto il peso del sistema pubblico vischioso. In Italia, è venuto il momento di alleggerire quel peso.
 
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